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Nel corso degli ultimi anni abbiamo sentito così tanto parlare di pari opportunità che le persone ormai vivono questa frase come consunta e perfino fastidiosa. In alcuni casi, quelli più estremi, anche con ripugnanza. Di fatto, però, la disuguaglianza economica, normativa, psicologica, affettiva, tra donne e uomini, e a sfavore delle donne, nei luoghi di lavoro e nella società è evidente e il problema, con tutte le sue implicazioni, non è affatto risolto.
Oggi più che mai, perciò, c’è la necessità di riflettere, di parlare e di agire riguardo alla condizione della donna in Italia, sia nel contesto quotidiano che lavorativo. Non solo a proposito della disuguaglianza, ma principalmente per quanto riguarda la violenza sulle donne, che della disuguaglianza è un aspetto correlato. Ad ottobre, nell’anno 2019, in Italia sono state uccise 94 donne e nonostante ci sia sempre una maggior comunicazione su queste violenze, il fenomeno continua a perpetuarsi. I mass media parlano dei casi più eclatanti di violenza sessuale e fisica, che sono la punta dell’iceberg, ma ancora non si parla abbastanza delle forme di violenza non visibile, come ad esempio quella verbale e psicologica. Mi sono sempre chiesta da mamma, compagna, amante, professionista ma soprattutto da donna, perché questo accade e come mai non si riesce a fermare questa ondata di odio e di violenza, di subordinazione, di disuguaglianza e di esclusione. Una riflessione potrebbe bastare: se si considera che è necessaria l’istituzione di una giornata così tristemente significativa come quella contro la violenza sulle donne, si può avere una misura della gravità della situazione. Da una considerazione attenta del problema parte il percorso che ha fatto nascere la ricerca per capire l’importanza della pluralità di codici affettivi nell’ esperienza relazionale tra uomini e donne, nel mondo del lavoro e nella società.
Il punto di partenza della ricerca sui codici affettivi nelle relazioni lavorative è il riconoscimento che noi esseri umani siamo portatori di una condizione di bisessualità, intesa come contingenza/compresenza di elementi maschili e femminili propria di ogni individuo, responsabile dei conflitti che ogni soggetto prova nell’assunzione e nell’elaborazione della propria sessualità. Secondo Sigmund Freud: (inserire la definizione) Partendo dagli studi e dalle ricerche di Freud, Luigi M. Pagliarani si è occupato della bisessualità al lavoro. Sia nel gioco dei bambini che nel lavoro degli umani, è possibile verificare, con l’osservazione, che noi siamo sempre contenuto e contenitore (penetrante e penetrato)[1]. È il modo in cui questa ambivalenza viene elaborata che decide della qualità dei rapporti. Ad esempio: se un capo riesce ad essere contenitore del collaboratore ma si fa anche contenere dal collaboratore, e non considera perciò il collaboratore come mero esecutore (lo stesso vale in una coppia), si crea dal punto di vista relazionale un rapporto di contenuto e contenitore e, quindi, è più probabile che non ci sarà una situazione di dominante/dominato. Condizione per questa evoluzione è che esista un rapporto di reciprocità tra contenitore/contenuto. La migliore opera (progetto, testo, ecc…) nasce da un rapporto di reciprocità. Per questo la bisessualità diventa una condizione esperienziale che, se vissuta con cura e reciprocità e un adeguato coinvolgimento dell’affettività, può essere particolarmente generativa e basata sull’elaborazione delle differenze[2]. Il passaggio dal costrutto di bisessualità, alla ricerca sulle condizioni lavorative delle donne, sulle loro progressioni di carriera e sulla costruzione della disuguaglianza, hanno portato all’individuazione del concetto di codice affettivo come via rilevante per la comprensione dei processi di esclusione, subordinazione, esclusione e violenza nei confronti delle donne. È stato possibile così riconoscere che le parole che contano nei processi relazionali tra uomini e donne sono tre e non due: sesso, genere e codice.
Noi rimuoviamo, attraverso certi processi di socializzazione e educazione culturalmente basati, il fatto di essere portatori di un pluralismo di codici. Siamo tutti portatori di codici maschili, femminili, paterni, materni, infantili (es. rimozione del concetto di anzianità a favore di un giovanilismo imperante; o esclusione della commozione da parte di un maschio perché piangere non è da uomini, etc.). Cosa perdiamo con la forclusione? Si verificano perdite secche, perdite umane, di opportunità di sperimentare sensazione ed emozioni molteplici. Cosa guadagniamo? La possibilità di definirci e individuarci nonostante la perdita e la selezione. La domanda allora diventa: quando avremo una società più giusta? Quando avremo più donne al potere? Ma se le donne per arrivarci utilizzano i codici maschili non sarà una soluzione. O una società più giusta ci sarà quando avremo donne e uomini che sapranno usare in maniera appropriata il pluralismo di codici? La risposta a queste domande non solo è chiara ed evidente ma pone la questione dell’educazione come via per arrivare a perseguire una società più giusta in grado di valorizzare l’uguaglianza di genere nel lavoro e nella società. In questo tempo non è più sufficiente limitarsi alle due forme classiche di fare educazione. Si deve spostare l’attenzione ad un terzo pensiero che riguarda proprio la natura del cambiamento e della formazione, soprattutto delle nuove generazioni. Quando si parla di educazione non si intende solo quella che pratichiamo nella crescita dei figli e dei bambini, ma si intende la capacità di tirar fuori il meglio da noi tutti. L’educazione può svolgere una funzione di particolare rilievo per favorire cambiamenti negli orientamenti e nei comportamenti correlati alla condizione della donna oggi. Per poterlo fare l’educazione deve cambiare sia nei contenuti che nei metodi. Considerando quanto detto è necessario introdurre il concetto di terza educazione. La prima è quella mediante la quale apprendiamo spontaneamente e tacitamente a stare al mondo nelle relazioni e nei contesti culturali e naturali della nostra vita; la seconda è l’educazione con la quale impariamo le strutture verticali del sapere (quelle che ci consentono di avere le basi per conoscere). La terza educazione deve diventare la via attraverso la quale impariamo a stare al mondo facendone parte. La terza educazione diventerà efficace se cambieremo la prima e la seconda. Solo in questo modo arriveremo ad avere una consapevolezza e un orientamento innovativo nei nostri comportamenti e nelle nostre relazioni. Per questa via sarà perseguibile lo scopo per cui fin da bambini divenga possibile sperimentare negli affetti primari un pluralismo di codici affettivi. È la condizione base perché quel pluralismo possa poi diffondersi nella vita quotidiana, nel lavoro e nella società. Il pluralismo dei codici non solo si sperimenta attraverso gli affetti primari ma anche attraverso le occasioni di apprendimento che viviamo fin da piccoli. Molti lavori di ricerca denunciano da tempo una situazione preoccupante lasciata fino ad ora immutata che riguarda i libri di testo delle scuole primarie, pubblicati dalle principali case editrici[4]. I principali dati emersi dalle ricerche evidenziano che:
Una ricerca condotta da Carla Weber, merita la nostra attenzione, ed è riportata nel suo libro Inventare se stesse[5]: Come fanno le donne a costruirsi una carriera di inferiorità, a diventare socialmente inferiori? Il meccanismo si rinnova nel tempo poichè al centro del processo di minorizzazione o inferiorizzazione emerge come particolarmente rilevante la relazione padre-figlia. Non riuscendo a incorporare il codice paterno – in quanto i padri principalmente impongono, non coccolano, non amano, non sono capaci di contenere - le donne, da piccole, finiscono per assumere solo o quasi un codice materno. Così facendo si crea una mancanza, la mancanza del codice paterno e purtroppo nella maggior parte dei casi le donne sono poi portate a scegliere un partner/capo/collaboratore simile al padre per qualche ragione. Questo meccanismo compensativo si rinnova all’interno dei processi di intenzionalità condivisa con cui diventiamo umani[6] e perpetua e normalizza la discriminazione e la minorizzazione. La terza educazione quindi deve fare i conti con l’educazione primaria e con l’educazione scolastica. Non solo ma quando parliamo di educazione parliamo soprattutto del ruolo che possono avere gli organismi intermedi, soprattutto il sindacato, perché nei luoghi di lavoro accadono le principali esperienze in questo senso, in particolare nelle relazioni, e nei linguaggi che si usano. Si pensi anche, ad esempio, a quello che possono fare le istituzioni culturali come i musei attraverso i messaggi potenti diretti ed indiretti, impliciti ed espliciti che si possono praticare attraverso una mostra, un’esposizione, un’azione artistica. E’ un progetto ambizioso ma su cui vale la pena investire per migliorare la società in cui si vive. Dai dati dei rapporti UNESCO sull’educazione sappiamo che solamente il 19-20% dei contenuti che apprendiamo è acquisito nei luoghi deputati a farlo, ad esempio scuola. Il resto lo impariamo nei contesti di vita. John Austin nel suo libro “Quando dire è fare” pone l’attenzione al rapporto tra azione e linguaggio, perché anche il linguaggio che utilizziamo è fondamentale[7]. Abbiamo bisogno di una inedita modalità di dire le cose che riguardano la relazione donna/uomo e la condizione femminile. E questo è importante che avvenga valorizzando la nostra costitutiva intersoggettività. Ognuna esiste solo in relazione con l’altro. Si stima in base a come è considerata dagli altri. Abbiamo quindi bisogno di una nuova grammatica affettiva per una civiltà delle donne e degli uomini. Se la legge è necessaria, servono azioni precise e specifiche per educare non solo le bambine e le donne, ma soprattutto il mondo maschile. [1] L. M. Pagliarani, Il coraggio di Venere, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, 3a edizione. [2] U. Morelli, Il conflitto generativo, Città Nuova, Roma 2013. [3] J. Butler, La vita psichica del potere, edizione italiana a cura di Carla Weber, Meltemi, Roma 2006. [4] I. Biemmi, Educazione sessista, Rosenberg & Sellier Torino 2017. [5] C. Weber, Inventare se stesse, Meltemi, Roma 2003; si veda anche J. Butler, Parole che provocano, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997. [6] M. Tomasello, Diventare umani, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019. [7] J. Austin, Quando dire è fare, Marietti, Torino 1974.
approfondimenti
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